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Eventi 11 Ottobre 2025di Marco Enzo Venturini

Il calcio tra presente e futuro allo stadio

Quanto e come è cambiato il calcio nel corso dei decenni? Una domanda profonda e dalle possibili risposte estremamente frastagliate, che però è stata affrontata con grande cura nel corso del IV Convegno dell’Academic Football Lab organizzato dall’Università degli Studi di Bergamo a Palazzo Bassi Rathgeb. L’evento, intitolato in maniera tutt’altro che casuale «Calcio e futuro. Scenari, regole, linguaggi», ha affrontato l’interessantissima questione in numerosi interventi da parte di sportivi, atleti, giornalisti e accademici. Due di essi sono andati nel cuore dell’argomento analizzando due cardini della fruizione del pallone da parte dei suoi appassionati: lo stadio e la copertura mediatica.

Il primo è stato oggetto di un’indagine di Barbara Cavalletti, Matteo Corsi e Maurizio Lupo per l’Università di Genova, con la collaborazione del CNR. L’intervento nel corso del convegno ha presentato fin dal titolo il suo scopo («Lo stadio che vorremmo per il futuro»), ma la trattazione dei tre studiosi è partita da molto più lontano. Ha infatti abbracciato l’intera storia degli impianti sportivi deputati ad ospitare il calcio in Italia. «Dopo la prima, inaugurata dall’iniziale diffusione dello sport, possiamo individuare cinque grosse fasi. Nella seconda, dagli anni ’20 del XX secolo e per molti decenni, si afferma il modello di stadio a proprietà pubblica. Poi si imporranno i modelli dello spazio popolare, televisivo, fino all’odierno stadio integrato di proprietà del club. In Italia abbiamo 15mila impianti omologati, di cui 92 nei campionati professionistici. Ben 65mila sono le squadre che li utilizzano. E, contrariamente a quanto si possa pensare, il pubblico è tornato a crescere dopo anni di flessione. Si pensi che erano 14 milioni gli spettatori complessivi nel 2019, ultimo anno pre Covid. Ebbene, nel frattempo siamo tornati a 21,5 milioni, con una percentuale dell’80% di riempimento degli spalti».

«Lo sport è un bene pubblico, e il calcio lo è a maggior ragione in quanto fenomeno popolare di massa – hanno proseguito nella loro trattazione gli accademici dell’ateneo ligure -. Quindi si tratta di un’attività che produce interessi, beni ed effetti pubblici. Ciò apre alla possibilità di un finanziamento pubblico, ma un bene pubblico non va necessariamente finanziato dallo Stato». Da qui lo studio ha compiuto la definitiva svolta a indagine, per determinare quanto tifosi o semplici appassionati siano disposti a «finanziare» direttamente o indirettamente il mondo del pallone.

«Partecipazione è la parola chiave. Abbiamo creato un esperimento sociale, visto che nel calcio ci sono effettivamente valori sociali. Quindi abbiamo chiesto alle persone: questi elementi di utilità collettiva sarebbero da pagare dalla comunità? Abbiamo quindi individuato e suddiviso gli elementi in questione. Il primo riguarda l’aspetto dell’intrattenimento, che rappresenta un servizio da potenziare e ha valenza più individuale che collettiva. Collettivi erano invece i successivi due: pratiche ecosostenibili e impegno sociale. Poi abbiamo chiesto alle persone se ritenessero necessario un contributo pubblico a sostenere questi oneri, coperto quindi dalle tasse dell’intera cittadinanza. In alternativa, volevamo sapere se ritenessero più corretto un contributo dei soli tifosi. Volevamo capire quali elementi rappresentano un effettivo valore per la comunità».

La risposta del campione, pur ridotto, potrebbe sorprendere qualcuno: «Prevale nelle persone che abbiamo raggiunto l’attenzione per impegno sociale, seguito dalle pratiche sostenibili. Il potenziamento del settore intrattenimento, invece, non appare rilevante. Riguardo ai contributi cambiano decisamente le risposte date da tifosi accaniti, occasionali e persone che non seguono mai il calcio. Se un valore è percepito come pubblico, quindi, si è disposti a finanziarlo. Possiamo concludere che il trend verso il privato non elimina l’interesse pubblico, quindi lo stadio come bene pubblico può reggere».

Tutti questi discorsi sul futuro del calcio, comunque, sono divenuti un tema caldo solo ai giorni nostri o sono sempre stati al centro degli addetti ai lavori nel corso dei decenni? La risposta è arrivata da Nicola Sbetti, che per l’Università di Bologna ha realizzato un interessante lavoro sugli archivi della «Gazzetta dello Sport», andando a ricostruire quante volte e in che modo il calcio è stato associato alla parola «futuro» in tutte le edizioni cartacee del noto quotidiano pubblicate tra gli anni ’40 e gli anni ’60.

«Solo dal 1950 si parla concretamente di futuro del calcio a livello di organizzazione – ha osservato Sbetti -. In particolare il giornale ha messo in discussione la formula del campionato, per la prima volta, nel 1964. Quella fu una stagione di grande importanza per la Serie A, tanto che si propose per la prima volta di introdurre l’antidoping in tutte le partite. Non solo si trattava di un termine poco diffuso fino a quel momento, ma era una novità che impattava per l’appunto sul futuro».

Allora come oggi, innovazioni che ci sembrano nel frattempo ovvie furono accolte con sospetto ai tempi: «Nel 1963 divenne possibile la sostituzione del portiere. Una novità che, si scrisse, toglie fascino. In quell’epoca, infatti, esisteva una narrazione che esaltava l’impresa epica delle squadre in grado di resistere in inferiorità numerica e senza portiere agli assalti degli avversari. Negli anni ’60 si inizia poi a parlare di calciomercato e si introducono anche previsioni. Non solo su chi vincerà una partita o un campionato, visto che alcune di esse si sono rivelate estremamente azzeccate. Nel 1965 si mise nel mirino l’inferno del gioco d’azzardo in Inghilterra, che si disse avrebbe superato la tv perché quest’ultima non dà le stesse emozioni. Alcuni temi, poi, si rivelano dei tormentoni senza fine e attuali anche al giorno d’oggi. Come quando, nel 1963, si scrisse che il Comune di Milano non costruirà il nuovo stadio».

(photocredits: Academic Football Lab – UNIBG)